Siamo nel pieno di un cambiamento epocale. La rivoluzione informatica, applicata ai diversi settori produttivi, ha imposto a tutti, che ci piaccia o meno, la necessità, nell’eseguire dei compiti, di essere veloci. In altre parole, siamo noi a doverci adattare alle procedure, non viceversa.
Questo nuovo scenario sta comportando una rivisitazione delle comuni modalità di utilizzo dello spazio e del tempo. Tutto più veloce, tutto in poco spazio. Se pensiamo poi a quanto la tecnologia applicata all’informazione corra con i suoi ritmi sempre più serrati e difficili da seguire, ci accorgiamo nella nostra mente, di quante cose in realtà passino e quante poche ne rimangano. Qualcuno lo ha definito mondo “fastnet”, stando ad indicare una modalità che impone la velocità a scapito della riflessione e del giudizio.
Una volta si diceva: chi si ferma è perduto. Credo che mai come oggi questo detto sia valido, con la conseguenza però che oramai, gli esseri umani sono diventati “più stupidi” per il fatto che il pensiero umano rallenta le prestazioni delle macchine, dei computer. Un bel paradosso vero? Anche perché l’essere umano non è “multitasking” come lo può essere un computer e non potrà mai competere con esso. All’orizzonte sta arrivando ormai il fantasma dell’intelligenza artificiale. Staremo a vedere come andrà a finire…
Quello però che possiamo già dire, sul piano psicologico, è che in questo appiattimento di spazio e tempo si è costituito una sorta di pensiero orizzontale. Ciò ha portato a due conseguenze: la prima è l’eliminazione del concetto di priorità a vantaggio di equivalenze che però rendono tutte le idee ugualmente valide.
Se nel passato si dava per scontata una qualche forma di pensiero verticale dove,per esempio, si sottolineava una cosa piuttosto che un’altra ( vedi per es. la fede nel proprio Dio collocata su un gradino più alto nella scala di significatività, rispetto alla convinzione di poter prevedere le condizioni del tempo), oggi si sta affermando una nuova forma di pensiero, l’orizzontalismo appunto, che non riconosce più un ordine gerarchico, ma che pone tutte le idee su uno stesso piano dove nulla è intrinsecamente più importante di qualcos’altro.
Siamo dunque indirizzati verso una sostanziale omogeneizzazione, come se avessimo bisogno di eliminare le differenze e di modellare un mondo di esseri indistinguibili. Questa tendenza viene riscontrata anche nel lavoro psicologico: un tempo gli equivalenti del selfie erano i lavori di introspezione e una conseguente presa di coscienza di quello che stava accadendo dentro di sé’. Oggi in questa apparente esternalizzazione di tutto, si fa fatica ad avere e mantenere un contatto continuo con la propria vita interiore.
Oggi sembra che l’imperativo sia vedere ed essere visti. Ma chiediamoci: vedere corrisponde a conoscere? Alcuni autori osservano che la nostra sia l’epoca dell’ “esibizione”: sembriamo attratti dalle immagini di vita dell’universo mediato dalle tecnologie. Ciò sta portando ad un paradosso, cioè al fatto che sebbene siamo tutti un po’ più informati a livello visivo, e si posseggano ricordi di quello che si è visto, la nostra capacità di interiorizzare, di lavorare criticamente su quello che percepiamo, dandone un senso, una coerenza interna, quello che chiamiamo “insight”, è notevolmente scarsa. Avendo cioè esternalizzato la coscienza, abbiamo spostato il nostro focus, precludendoci quella attenzione verso il mondo interno fondamentale per evolverci davvero.
Questo uso, potremmo dire, quasi a senso unico della vista, orientato solo verso l’esterno, porta una persona a guardare più che a pensare. Abbiamo cioè costituito un pensiero rifrattivo. Quando un oggetto viene affrontato tramite il pensiero rifrattivo, si verifica un’istantanea espulsione di qualsiasi linea di pensiero conseguente, che viene allontanata dal soggetto, nello spazio. La rifrazione getta il pensiero sugli oggetti, ma questi, anziché servire da contenitori per i pensieri recuperabili attraverso la memoria, funzioneranno come caniali di dispersione del pensiero, cosicché il contenuto dello stesso scompare. Il pensiero rifrattivo seleziona una caratteristica secondaria all’interno di una comunicazione, mettendola in evidenza e condannando il nocciolo della comunicazione all’oblio. Il pensiero rifrattivo, così, elimina il significato.
Credo che sia giusto infine porsi alcune questioni. Queste nuove dimensioni del pensiero contemporaneo sono adattamenti intermedi ad un mondo che sta cambiando dove il pensiero non è più per il presente, ma riferito solo al futuro? Forse ora il pensiero si esplica attraverso il non pensare? Operazionismo,orizzontalismo, omogeneizzazione, rifrazione e visione solo esterna sono mosse adattative, compiute per controllare tutto ciò che provoca smarrimento ?
Una cosa però è certa: il lavoro su noi stessi è faticoso, ma assolutamente necessario.