La gente crede di inseguire le stelle e finisce come un pesce rosso nella boccia. Mi chiedo se non sarebbe più semplice insegnare fin da subito ai bambini che la vita è assurda. Questo toglierebbe all’infanzia alcuni momenti felici, ma farebbe guadagnare un bel po’ di tempo all’adulto – senza contare che si eviterebbe almeno un trauma, quello della boccia.
(Muriel Barbery)
Il trauma della malattia
“Non mi ricordo niente del viaggio di ritorno dall’ospedale a casa della mia ragazza; È come un film senza voci, un turbinio di emozioni e una sequela disordinata di immagini senza senso”. Ricordo ancora le prime parole toccanti pronunciate in un primo colloquio da un ragazzo di 32 anni, inviatomi da un collega psichiatra, dopo la diagnosi di leucemia.
Quando arriva la comunicazione di una diagnosi di una malattia, di qualunque tipo, è un vero trauma per la persona che la riceve e le persone che ci circondano. Le reazioni alla diagnosi ricevuta di una malattia sono molto variegate e comportano molte variabili; la situazione è in costante evoluzione, in costante precarietà e incertezza. Le reazioni possono essere influenzate da diversi fattori, come la propria personalità, il supporto affettivo che si riceve e in ultimo dalla propria storia personale. È indubbio che scoprire di avere una malattia destabilizza il nostro equilibrio interno: tutto quello che ci accadrà nei prossimi mesi verrà percepito in maniera differente. La malattia necessita come tutti i traumi, di un continuo impegno di adattamento.
Le emozioni più comuni sono quelle di rabbia, paura, senso di colpa e profonda tristezza. È difficile accettare la malattia: non si comprende quello che viene detto; la reazione di shock e il senso di impotenza prevalgono nella fase iniziale. Le persone iniziano a provare rabbia con se stessi, nell’idea di poter pensare che si poteva fare qualcosa per impedire alla malattia di presentarsi, ci si arrabbia con i medici, si pensa che gli esami siano sbagliati, ci si arrabbia con il destino perché non ci si meritava di ricevere questa notizia.
Ci si sente arrabbiati perché i progetti futuri non hanno più certezze; anche le scadenze a breve termine sembrano non più utili da portare a termine. Capita anche di provare risentimento nel vedere che la vita delle persone attorno a noi scorre normalmente mentre la nostra cambia in continuazione.
La paura è l’emozione più potente: si ha paura della malattia, dei trattamenti, della possibilità di guarire, dell’effetto che tutto questo avrò sulla propria famiglia o figli.
Convivere con l’incertezza della malattia non è affatto semplice. Ci si interroga continuamente sugli effetti della terapia, su come cambierà il proprio corpo, se lo sguardo dell’altro sarà giudicante, come si potrà dire ai colleghi di lavoro delle continue assenze. Per conviver con la malattia e tutti i cambiamenti che essa comporta, bisogna accettarla.
Il concetto di accettazione della malattia è molto delicato: l’accettazione è definibile come l’uso delle proprie risorse e del proprio tempo per perseguire in modo consapevole i propri obiettivi. Per il processo di accettazione, è necessario lavorare su tre emozioni, la tristezza, la rabbia e la paura; per quanto spiacevoli sono molto utili. La tristezza consente di “sentire la mancanza” e di investire le proprie energie nella direzione di recuperare quello che ci manca, trovando nuove strategie e progetti più adattivi. La tristezza infatti comporta un ritiro in sé e momento di riflessioni, implica che la persona si fermi a ragionare su cosa può fare per uscire da questo stato emotivo; l’ansia nasce dalla sensazione di essere in una situazione incerta e precaria, ci consente di usare il più possibile le nostre risorse. La rabbia invece consente di agire contro chi si pensa responsabile e consente di difenderci da comportamenti pericolosi.
Pertanto l’accettazione consente di usare le risorse verso investimenti utili. È indubbio che aspetti personologici, tra cui le capacità di coping influenzano il processo di adattamento, contribuendo ad allungare i tempi di “guarigione”. Due studiosi in materia Hayes e Wilson 1994 definiscono l’accettazione della malattia come “la resa nella futile lotta per fermare i pensieri automatici e intrusivi sulla malattia” e “la sosta nella ricerca di una soluzione definitiva per i sintomi fisici”. La persona non deve arrendersi ma deve reindirizzare le energie legate ai propri valori personali per la gestione della malattia. Quello che mi capita di vedere nella stanza d’analisi è la fatica delle persone di accettare i vincoli e i limiti imposti, come se si pensasse che alcune condizioni siano inaccettabili, invece bisogna accettare che alcune condizioni siano inaccettabili.
Accettare significa non arrendersi ma non sforzarsi di modificare l’immodificabile, cercando di evitare lo sperimentare di emozioni negative. Il rischio di una strategia di evitamento prolungato è quello di incorrere in quello scollamento dalla realtà, in una condizione di dissociazione psichica ed emotiva. Solamente l’accettazione e l’impegno continuo consentono di essere flessibili nell’accettare pensieri e emozioni e di stimolare la messa in atto di azioni che contribuiscano a vivere una vita con una buona qualità di vita.
Un altro elemento chiave è non identificarsi con la malattia e la sofferenza in toto; accettare non significa essere rassegnati o passivi ma assumere quell’atteggiamento mentale che consente di spostare l’attenzione da qualcosa che non può essere controllato come le emozioni negative che ne seguono, a qualcosa di più controllabile (McCracken e Eccleston, 2005). Le persone che rispondono con maggiore accettazione, riferiscono tono dell’umore meno deflesso, meno ansia e quindi meno impedimenti nello svolgimento della loro vita quotidiana.
Uno stile di pensiero che ostacola il processo di accettazione è la catastrofizzatine, che correla con la sensazione di provare più sofferenza e sentirsi inadeguati a fronteggiare il dolore. Questo stile di pensiero comprende la ruminazione che non consente di distogliere l’attenzione su altri aspetti che non siano legati alla malattia e ai trattamenti, contribuendo a un forte senso di impotenza.
Ritrovare la propria bussola dell’esistenza, comporta maggiore senso di calma e di tranquillità: una predisposizione attiva e partecipativa del paziente può fare la differenza. La persona malata ha un ruolo chiave in tutte le fasi della malattia. È bene coltivare un senso di autoefficacia e la convinzione di riuscire a gestire una situazione traumatica.
Perché è importante chiedere aiuto ed essere aiutati?
È molto importante dare sfogo a quello che si sente; non ha senso e non serve reprimere le proprie emozioni con l’idea che “bisogna essere forti “. È bene esprimerle e condividere il proprio mondo emotivo, provando anche a rievocare le situazioni negative già affrontar in passato.
Nonostante la ricerca scientifica e i progressi, ricevere una diagnosi, comporta dal punto di vista emotivo, la paura di nuova minaccia che genere incertezza, paura angoscia e incrementa la vulnerabilità personale, mina le capacità di controllo e il senso di continuità della propria esistenza. La malattia richiede una difficile capacità di adattamento e grandi cambiamenti, sono solamente fisici ma anche psico emotivi, relazionali e sociali con conseguenze negative nelle persone malate. La sofferenza psicologica ha manifestazioni diverse, da sintomi lievi fino a problemi più seri che possono interferire e rendere disabilitante la capacità della persona di affrontare la malattia.
Nonostante la sofferenza emozionale sia molto diffusa, solo in parte, chi ne ha bisogno, riceve l’aiuto e il supporto adeguato. Se questo stress emozionale reattivo al trauma della malattia, non viene adeguatamente trattato, può comportare delle conseguenze sul piano della salute psicosociale (compromissione delle relazioni e ritiro dalla vita sociale) e di quella fisica (non adesione alle cure, interferenza con i sintomi della malattia e gli effetti collaterali dei trattamenti). La sofferenza emotiva va monitorata e trattata.
Non è però possibile dare una risposta univoca su come affrontare “al meglio” una diagnosi, bisogna pensa re a un percorso di cura specifico che risponda ai bisogni della persona. “È necessario cogliere l’opportunità di essere aiutati da uno specialista per recuperare il proprio benessere globale. Il supporto psicologico può aiutare nel favorire l’adattamento alla nuova situazione dei vari stadi della malattia, affrontare l’incertezza del futuro, dare un senso alla malattia per integrarla nella propria esistenza, stabili una comunicazione più aperta con i famigliari e migliorare la capacità di enpowerment, di padronanza della situazione. Nella consapevolezza che non c’è una ricetta buona per tutti, l’aiuto psicologico personalizzato può fare la differenza nella propria vita ed essere un importante alleato della nostra salute, fisica ed emotiva.
Il supporti psicologico può essere anche molto utile nei casi in cui i famigliari non sappiamo come gestire il loro malessere.
Se desiderate ricevere una consulenza da uno dei nostri specialisti, potete contattare il Centro Clinico di Psicologia di Milano, via Tiziano, 19 – 20145 Milano ( MM ROSSA BUONARROTI)
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Articolo scritto dalla dott.ssa Mirella Chiorazzo
Bibliografia
- Risdon A1, Eccleston C, Crombez G, McCracken L. How can we learn to live with pain? A Q-methodological analysis of the diverse understandings of acceptance of chronic pain. Soc Sci Med. 2003 Jan;56(2):375-86.
- Quartana, P.J., Campbell, C.M., Edwards, R.R. (2009). Pain catastrophizing: a critical review. Expert Rev Neurother; 9: 745-58.
- McCracken, L.M., Eccleston, C. (2003). Coping or acceptance: what to do about chronic pain? Pain; 105: 197-204.
- McCracken, L.M., Eccleston, C. (2005). A prospective study of acceptance of pain and patient functioning with chronic pain. Pain; 118: 164-9.